Allevatori e veterinari in Africa stanno sempre più utilizzando i telefoni cellulari per allertare rapidamente su possibili focolai di malattie animali così da poter intervenire ad uno stadio iniziale e avviare con prontezza campagne di vaccinazioni su vasta scala.
Alcune applicazioni per smartphone stanno rendendo il sistema di “allarme rapido” una questione di secondi invece che settimane, e gli interventi veterinari possono essere localizzati con estrema precisione e velocità grazie alla funzione Global Positioning System (GPS – Sistema di localizzazione globale via satellite) adesso disponibile nella maggior parte dei cellulari.
“La FAO e altre organizzazioni partner stanno profittando della grande diffusione della tecnologia cellulare al fine di informare rapidamente su focolai di malattie animali, localizzando con precisione le campagne di vaccinazione e le cure veterinarie, come ad esempio terapie contro i parassiti intestinali degli animali“, dice Robert Allport, Assistente del Rappresentante FAO in Kenya per l’Attuazione dei Programmi.
Fra le applicazioni sono segnalate EpiCollect (che finora è stata usata soltanto dai veterinari sul campo, con cellulari forniti da Google Kenya, per una fase di prova) e la tecnologia Nokia Data Gathering (NDG) per monitorare i punti d’acqua delle zone pastorali come indicatori precoci di siccità in Kenya ed Etiopia.
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Entrare in un negozio di abbigliamento in un centro commerciale e sentirsi chiamare per nome dal commesso, che per di più sembra sapere tante cose su di noi. «Bentornato: abbiamo nuovi arrivi che le piaceranno senz’altro. E c’è ancora qualche jeans della sua taglia scontato al 50%». Esperienza originale, dal momento che quel commesso non ci ha mai visti prima. Ma si spiega così: sullo smartphone abbiamo installato un’applicazione del negozio, che ci riconosce grazie a un sensore di localizzazione posto all’ingresso. Il commesso, a sua volta, vede il nostro nome e altre caratteristiche personali su un’app dello smartphone. Avviene già nei punti vendita di Neiman Marcus, negli Usa, ma gli esempi si stanno moltiplicando. Negozi, ma anche pubbliche amministrazioni e musei, stanno sfruttando la localizzazione indoor degli utenti per offrire loro un servizio migliore. Più personalizzato e più coinvolgente.
Sono due gli elementi di base. Una tecnologia per tracciare l’utente nei luoghi chiusi (dove il gps funziona male) e un app specifica, per smartphone (iPhone e Android). La tecnologia può essere proprietaria, basata su infrarossi o ultrasuoni. Oppure utilizzare standard su onde radio come il wifi o il Zigbee. Fatto sta che decade il vecchio modello di shopping, anonimo, passivo e impersonale. Questi servizi possono arricchire anche la visita di un museo, il passaggio in un aeroporto. Insomma, personalizzare l’esperienza in quelli che Marc Augé chiamava “non luoghi”: perché adesso il luogo ci riconosce, sa i nostri gusti e passati acquisti, grazie all’app associata. Con quella di RedLaser (azienda di eBay), gli utenti possono individuare i prodotti adatti ai propri interessi, non appena entrano in negozio (per esempio in 1.100 punti vendita di Best Buy). L’app di Shopkick dà punti ogni volta che si entra in un negozio affiliato all’iniziativa (7mila negli Usa), utilizzabili per buoni, omaggi e sconti.
Un luogo può usare l’indoor positioning anche per guidarci attraverso i piani e le stanze interne (un po’ come fa un gps per le strade). Avviene all’American Museum of Natural History (New York) e al Royal British Columbia Museum, che visualizzano sull’app anche informazioni aggiuntive in forma testuale, video o realtà aumentata. Più di recente, il Miami Children’s Hospital ha lanciato un’app che guida gli utenti passo passo al proprio interno. Sempre più spesso lo faranno i grandi magazzini, perché così possono anche indirizzare l’utente verso specifici reparti e promozioni (magari personalizzate). Uno dei primi ad averlo fatto è il Macy’s di New York, da novembre. Al fenomeno sembrano interessati anche Google, Microsoft (Bing) e Nokia: alle proprie mappe stanno aggiungendo quelle interne di migliaia di grandi edifici, in decine di Paesi.
In Italia non ci sono esempi simili, ma comunque anche da noi il commercio sta cominciando a sperimentare servizi che personalizzano il rapporto con il cliente tramite smartphone e social network. È quanto riferiscono a Nòva24 da Netcomm (Consorzio del commercio elettronico) e a School of Management-Politecnico di Milano. «Coin, Salmoiraghi e Viganò inviano coupon a chi fa check-in con Foursquare. Patrizia Pepe regala punti da aggiungere al saldo della carta fedeltà a chi condivide contenuti della marca sui social network o fa check-in in un punto vendita», dice Marta Valsecchi, che si occupa di questi temi per il Politecnico. «Vediamo anche da noi un’evoluzione multicanale – aggiunge Roberto Liscia, presidente di Netcomm –. In metropolitana, Klikkapromo mette QR Code che rivelano, agli smartphone, i migliori prezzi del momento nei negozi vicini, per specifici prodotti. I futuri portafogli virtuali faranno pagare non solo via Nfc ma anche via QR Code». Un’applicazione di Banca Sella permette di comprare prodotti attraverso la vetrina, quando il negozio è chiuso, fotografando un QR Code. «Le principali carte di credito, CartaSì e Nektar, per esempio – continua Liscia – stanno aggiungendo funzioni da carta di fedeltà e viceversa».
Il pagamento e lo shopping sono destinate a essere esperienze sempre più personali, attraverso un mix di tecnologie, che comunque richiederanno il coinvolgimento attivo dell’utente.
Il grafene un materiale capace di condurre l’elettricità meglio del rame, trasparente come il vetro e più resistente dell’acciaio. Immaginate poi di poterlo piegare come se fosse plastica, e realizzare così schermi touchscreen da arrotolare e portarvi in tasca. Pura fantascienza? Forse no, perché gli scienziati conoscono già da anni il grafene, un “materiale delle meraviglie” con proprietà ed applicazioni in parte ancora ignote.
Una applicazione in agricoltura? Pensate all’osmosi inversa. Un esperimento di osmosi inversa è stato condotto negli Stati Uniti dai ricercatori del Massachussets Institute of Technology. “La struttura molecolare peculiare del grafene consente di creare dei fori di qualsiasi dimensione sulla sua superficie. Questo ci ha permesso di far passare l’acqua da una parte e i sali dall’altra”, hanno spiegato i ricercatori sulla rivista dell’American Chemical Society. “La dimostrazione di questo processo di osmosi inversa non è nulla di nuovo, ma erano necessari equipaggiamenti ingombranti e un alto consumo energetico. Tramite il grafene, invece, il processo di desalinizzazione si può svolgere 1000 volte più velocemente e a un costo energetico pari a zero.
Così, mentre parte della comunità scientifica sta studiando le caratteristiche del grafene, molti ricercatori in tutto il mondo sono impegnati a sviluppare tecniche di produzione innovative, come quella recentemente sviluppata alla Toyohashi University of Technology.
Un gruppo coordinato da Yuji Tanizawa è infatti riuscito ad “addomesticare” dei microorganismi raccolti in un fiume vicino al campus universitario, nella prefettura di Aichi, ed utilizzarli così per produrre i sottilissimi fogli di grafene. Il nuovo metodo, presentato sulle Conference Series del Journal of Physics, sfrutta quindi un procedimento ibrido che combina processi chimici ed agenti biologici e che potrebbe offrire un nuovo canale per produrre grafene di alta qualità, a basso costo, e nel completo rispetto dell’ambiente.
Un materiale da premio Nobel. Costituito da uno strato di atomi di carbonio collocati su una struttura a nido d’ape, il grafene è considerato uno dei materiali più promettenti del futuro. Questo materiale bidimensionale è infatti ultrasottile, flessibile, ed è circa 200 volte più resistente dell’acciaio. E’ inoltre un ottimo conduttore di calore e di elettricità, e per le sue proprietà di trasporto degli elettroni è già considerato l’erede del silicio nell’elettronica del futuro.
Ma uno degli aspetti più sorprendenti del grafene è che ce l’abbiamo sotto gli occhi praticamente quasi tutti i giorni, ogni volta che scriviamo con una matita. La grafite, di cui è fatto il cuore delle nostre matite, è infatti una sovrapposizione di strati di grafene separati da tre decimilionesimi di millimetro.
Nonostante molti studi teorici avessero iniziato a delineare le proprietà fisiche e chimiche degli strati di grafite sin dalla prima metà del Novecento, il grafene rimase per decenni lontano dai laboratori. Si riteneva infatti che la configurazione atomica del grafene fosse altamente instabile e che fosse quindi impossibile crearlo a temperatura ambiente.
Tutto cambiò nel 2004, quando un gruppo di ricercatori dell’Università di Manchester, guidati da Andre Geim e Konstantin Novoselov, riuscì per la prima volta ad isolare il grafene in laboratorio. Geim e Novoselov avevano infatti usato un nastro adesivo per strappare singoli piano di grafene da un substrato di grafite. La scoperta, discussa su Science nell’ottobre 2004, era così rivoluzionaria da meritare un biglietto per Stoccolma in tempi record. Dopo solo sei anni, Geim e Novoselov ricevettero il premio Nobel 2010 per la Fisica, per “i pionieristici esperimenti sul materiale bidimensionale grafene”.
Batteri mangia-grafite. La scoperta di Geim e Novoselov aprì la strada ad un nuovo settore della fisica dei materiali, su cui iniziarono a lavorare scienziati in tutto il mondo. Molti gruppi di ricerca, come quello di Tanizawa, si concentrano oggi sullo sviluppo di tecniche di produzione alternative al metodo di esfoliazione adottato da Geim e Novoselov.
Il gruppo giapponese lavora infatti sui metodi di tipo chimico, che sfruttano cioè reazioni per produrre grafene a partire dall’ossido di grafite. Questo materiale ha una struttura laminare molto simile alla comune grafite, ma dove però ad alcuni atomi di carbonio sono legati altri atomi, come ad esempio ossigeno ed idrogeno. Per produrre il grafene, si operano dei processi chimici di riduzione, nei quali cioè vengono ceduti elettroni all’ossido di grafite, in modo da spezzare i legami con l’ossigeno e ricondursi poi ai singoli piani di grafene.
Tuttavia questi processi chimici utilizzano come reagente l’idrazina, oppure si basano sul riscaldamento ad altissime temperature, due tecniche che rendono il procedimento molto costoso e persino tossico. Per questo motivo i ricercatori giapponesi hanno deciso di “chiedere aiuto” ad alcuni microorganismi capaci di operare processi di riduzione chimica.
Molti batteri, come ad esempio quelli della specie Shewanella oneidensis, ricavano infatti energia dai processi di riduzione, trasportando cioè elettroni verso l’esterno in un curioso processo di respirazione cellulare. Facendo “respirare” ai microbi l’ossido di grafite per tre giorni ad una temperatura controllata di 28 °C, i ricercatori sono così riusciti ad ottenere frammenti di grafene grandi 100 micron e di ottima qualità, in un processo non tossico e poco costoso.
Dai transistor alle reti superveloci. Produrre grafene di qualità e a costi contenuti è una priorità, soprattutto in vista delle nuove potenzialità che si scoprono giorno dopo giorno. Sicuramente le applicazioni più promettenti sono legate all’elettronica, viste le peculiari proprietà del grafene nella conduzione di corrente. Nel 2010 ad esempio, un team della IBM è riuscito a creare transistor al grafene capaci di operare a frequenze superiori a 100 GHz.
Tuttavia per fare il salto verso processori a base di grafene occorre superare un ostacolo legato alle perdite di corrente di questi transistor, che impediscono di montare troppi transistor in un singolo circuito. Un ostacolo che potrebbe presto essere superato grazie ad una nuova scoperta realizzata da Andre Geim e pubblicata a febbraio su Science.
Geim e colleghi hanno infatti sfruttato la “terza dimensione” del grafene, accoppiando diversi strati di questo materiale con vari strati di metallo, creando così transistor di nuova generazione. Le proprietà quantistiche del grafene, legate ad esempio al basso momento magnetico dei nuclei di carbonio, rendono inoltre questo materiale un ottimo candidato per creare i dispositivi di base per la spintronica, ovvero l’elettronica basata sui bit quantistici, o qubit, che dovrebbe essere alla base dei computer quantistici.
Ma le meraviglie del grafene potrebbero portarci altri regali futuri, fra cui sistemi di trasmissione digitale ancora più veloci. E’ infatti possibile alterare i livelli energetici del grafene per renderlo più o meno trasparente e creare così dei modulatori ottici, ovvero degli interruttori capaci di controllare il percorso dei segnali luminosi. I primi modulatori ottici a base di grafene, grandi pochi micron, sono stati realizzati all’Università di Berkeley e presentati per la prima volta su Nature nel maggio dell’anno scorso. Questi ‘interruttori luminosi’ saranno utilissimi nell’ottica quantistica e nella comunicazione digitale ad altissima velocità.
Come la plastica cento anni fa. Le potenziali applicazioni vanno oltre l’elettronica o l’ottica. Per esempio, la densità del grafene lo rende impermeabile ai gas, una proprietà che potrebbe essere sfruttata per creare filtri più efficienti, ad esempio nella produzione di biocarburanti. Essendo poi un materiale praticamente bidimensionale, il grafene può essere usato per costruire sensori a grande area sensibile capaci di individuare singoli atomi, e costruire così rilevatori di sostanze tossiche estremamente sofisticati.
L’accoppiata fra le proprietà elettriche e meccaniche del grafene permetterà inoltre di costruire molti dispositivi estremamente efficienti e flessibili, fra cui schermi touchscreen, batterie ad alta capacità e pannelli solari di nuova generazione. Inoltre, i fogli di grafene possono essere arrotolati in nanotubi di carbonio, che già oggi sono alla base di moltissime applicazioni nel campo delle nanotecnologie.
Ma l’aspetto forse più intrigante è che gli scienziati sono ancora lontani dalla comprensione completa delle proprietà del grafene. Fino a pochi mesi fa non si sapeva molto delle proprietà magnetiche di questo materiale, fino a quanto il gruppo di Geim è riuscito a mettere in evidenza le prime tracce di fenomeni magnetici nel grafene, come descritto in un articolo apparso a gennaio su Nature Physics. E’ sicuro che anche questa scoperta porterà a nuove interessanti applicazioni.
Nel gennaio 2013 (insieme al progetto Human Brain Project) è stato selezionato dalla Commissione europea tra i FET Flagships, i progetti faro di ricerca e sviluppo promossi dall’Unione Europea: scelti da una rosa di sei candidati, i due progetti beneficeranno di un sostegno finanziario di 1 miliardo di euro lungo dieci anni.
Il grafene è quindi ancora ricco di misteri. Le sue potenzialità sono così grandi che oggi è praticamente impossibile immaginarle tutte. A cosa servirà il grafene? Una domanda a cui nemmeno il premio Nobel Andre Geim sa ancora rispondere, come ebbe modo di dichiarare ai tempi del Nobel. “Non lo so. E’ come presentare un pezzo di plastica a un uomo di un secolo fa e chiedergli cosa ci si può fare. Un po’ di tutto, penso”. Detto da un premio Nobel, non possiamo che fidarci.